“Possibile che un essere umano non sia che un produttore
di incomprensioni su larga scala?”
Philip Roth
Sembra essere questo, così ben sintetizzato da Roth, il quesito di fondo de L’estate del ’78 con cui Alajmo narrativizza le vicende biografiche familiari e indaga sull’istinto di vita e la pulsione di morte ( anche con divagazioni per niente banali sull’allungamento della vita ad ogni costo, da segnarsi in margine).
Ci son voluti quarant’anni per elaborare il lutto della perdita materna e affrontarlo in una carrellata di grande equilibrio per toni ed emozioni, ironia e malinconia, come in un dramma giocoso di andamento mozartiano.
Il flash iniziale riporta il lettore a Mondello, ad un lontano afoso pomeriggio, appunto dell’estate del ’78.
C’è una gioia diffusa ed esuberante di adolescenti maturandi, in corsa verso il futuro.
C’è una donna abbandonata come una cosa, irriconoscibile a sé e agli altri, stretta tra l’immutabilità di una scelta di vita e l’ineluttabilità della perdita.
C’è, palpabile, l’imbarazzo di un incontro, del non detto, da metabolizzare a lungo prima di farlo diventare
” un singolare esercizio di autoterapia”.
Molto coinvolgente per il lettore, rasserenante per lo scrittore.
Sebbene, con quali esiti catartici, neanche l’autore sa ben dire, visto che, tocca ammetterlo, la catarsi non si raggiunge “a forza di scrivere libri”.
L’appassionata ricerca di Alajmo, attorno al mistero delle scelte materne e al loro drammatico esito, ha il pregio di non rimanere fine a sé stesso ma apre il sipario su un’epoca di perbenismo, di vincoli di genere, di scuola elitaria, di riti borghesi, che il 1978 in parte rimosse con l’insegnamento di don Milani, la legge Basaglia, la messa al bando di violente terapie.
“Molte donne italiane, negli anni Settanta, cominciano a prendere lo Spasmo Oberon e non riescono a smettere, non smettono più. Nel giro d’un paio d’anni le case italiane si riempiono di madri di famiglia rincoglionite e tossicodipendenti, ma nessuno lo sa”
Anche quella donna bella creativa, in cerca di autoaffermazione, che voleva afferrare il mondo mentre il mondo le sfuggiva di mano, combatteva le sue insoddisfazioni con il famigerato Spasmo Oberon, barbiturico da fumetto, persino nel nome, causa di rovina di tante donne fino al 1986, quando fu ritirato dal mercato.
Il lettore si appassiona alla vicenda familiare di Alaimo, che decide di rendere pubblico il suo dolore, inanellando spunti indiziari privati ma anche epocali che consentono di soggettivizzare l’argomento, analizzare comportamenti dettati dalle rigidità morali di un Paese dominato da stereotipi di conservazione e sperequazione comportamentale di genere.
Elena è, suo malgrado, la testimonial di un femminismo, isolato inattuale incompreso nella società conservatrice di appartenenza, generatrice di frustrazione ove, ahimè, “il sistema vince per manifesta superiorità”, senza che si intravveda un futuro meno sessista.
Il futuro comunque arriva, irrompe tra irrisolti ricordi personali, foto d’archivio, doloroso accesso agli atti, con la nascita di Arturo, motore (im)mobil(issimo), “non posseduto dal demone della reperibilità”.
Ha le sembianze di Arturo, che segna una ripartenza, polverizza certezze, innesca nuove ansie, nel tempo feroce degli attentati, ma offre spunti di serendipity, presto da annoverare come tutte le felicità, tra le Gioie irrecuperabili .
In grado, Arturo con il suo arrivo, di rendere inani progetti di morte autoindotta, anche con tracotanza giovanilistica e superomistica, nel segno del materno disatteso (anche quello!) “HO SCELTO IO IL MOMENTO”..