Per brontolon* da PremioStrega, per quell* che #laCorsaranonèunromanzo, #laJanaczeknonsascrivere, giunge dalla Scozia il #romanzoromanzo:
Eleanor Oliphant sta benissimo.
E anche Gail Honeyman.
Vien subito da aggiungere, visto il robusto inequivocabile successo editoriale per il quale si è mobilitata la critica internazionale, portando il libro alla quarta edizione in un mese.
Se la Austen dovette aspettare venti anni venti per veder pubblicato “Orgoglio e pregiudizio”, è bastata la lettura dei primi tre capitoli di Eleanor per convincere il lungimirante editore alla pubblicazione.
Nata e cresciuta in Scozia, laureata in Lettere Antiche, la Honeyman, vive a Glasgow e coltiva la grande tradizione narrativa delle sue conterranee a partire da Jane Austen, Charlotte Brontë, strizzando l’occhio a Helen Fielding.
Persino più goffa e socialmente isolata di Bridget Jones, di cui condivide età, nazionalità, abbagli, cattive abitudini etiliche, madre persecutoria e castrante (nonostante il forzoso isolamento), salvifico humor, abbinato a sguardo fermo sul mondo, consapevolezza di doversela sbrigare da sola, innato senso etico rispetto alla cultura materiale, che la orienta a scegliere tra il necessario e il superfluo ed ad allungare uno sguardo critico sul mondo e le sue convenzioni sociali, la Eleanor di Gail Honeymar, muovendosi sul terreno sdrucciolevole del sempiterno sentimentalismo alla Emily Dickinson, con leggera ironica amabilità, declina, rinverdendolo, il tema della forza eversiva della gentilezza, dei piccoli atti in grado di dar senso all’esistenza, riscattare destini grigi, segnare l’evoluzione emotiva e sentimentale di persone e personaggi.
Single, trentenne, non amata e non voluta, fisicamente segnata da cicatrici sul volto, e ancor più sull’animo, a causa di un indicibile episodio, rimosso con rigidità e annullato dalla asettica ripetitività delle incombenze quotidiane private e lavorative, Eleanor non fa mistero della sua solitudine, il più imbarazzante dei mali del nostro tempo, enfaticamente negato dai più, vero cancro sociale, marchio di emarginazione ed insuccesso.
Eleanor aspira alla medietà, mangia sano, parla poco ma forbito, e, pur vagheggiando smodata passione per Emily Dickinson e le sue eroine, non coltiva relazioni.
Affidata ai servizi sociali, laurea in lettere classiche, con sorprendenti competenze linguistiche tanto desuete da isolarla ancora di più nel sociale, misteriosamente esperta, data la dichiarata indigenza, di raffinatezze culinarie, non può permettersi le delicatessen di Zabar’s, ma compra da Tesco Extra, osteggia McDonald ed è un’estimatrice di pasta al pesto.
Orgogliosa e sincera, animalesca nelle intuizioni, “se sono incerta penso che cosa farebbe un furetto” e ” non ci sono abbastanza cani in un libro”, anche se poi sceglie un gatto, legata a discutibili rituali da solitario weekend, scopre la forza primordiale e rivoluzionaria dell’amore che la porta a modificare vistosamente i suoi comportamenti, con risultati di tutto rispetto sul piano personale e lavorativo.
L’oggetto della sua adolescenziale infatuazione è un cantante di grande ambizione e di poco successo, che ha modo di conoscere solo virtualmente, ma che la spingerà, nel desiderio di piacergli, a varcare i palazzi dello charme estetico per una vigorosa remise en forme, secondo dettami modaioli finora ignorati se non avversati.
Mentre sacrifica il suo modesto budget a beneficio di unghie e capelli, nella totale indifferenza dell’oggetto del suo desiderio, ed entra in relazione con l’universo di shampiste e manicuriste di arrogante incompetenza, ecco che salta fuori un collega che, sotto l’aspetto di un primate del Madagascar, la inizierà, con atteggiamenti da giovane marmotta, alla socialità, alla condivisione, all’accettazione di se stessa.
Introspettiva come la Hélène, de Il vino della solitudine, Eleanor, a differenza di quel che sostiene Irène Némirovsky, in margine al suo libro, scoprirà che da un’infanzia infelice si può guarire (forse).
“Una violenta folata di vento potrebbe staccarmi del tutto, sollevandomi e facendomi volare via, come un seme di tarassaco“