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Cleopatra va in prigione, ma anche al Premio delle Biblioteche di Roma

2017/10/24 - Biblioteche, Letteratura di: MG Colombo
Cleopatra va in prigione, ma anche al Premio delle Biblioteche di Roma

Claudia Durastanti
CLEOPATRA VA IN PRIGIONE
selezionato Premio biblioteche di Roma 2017
minimumfax, Roma 2016

Il fascino (in)discreto della perdente.

Lei si chiama Caterina, quasi ballerina, ha un quasi fidanzato quasi imprenditore, un quasi amante quasi agente scelto.

Lei, lui, l’altro: sprovveduto triangolo all’insegna della precarietà, della disillusione, dell’occasione perduta.

Così, per un soffio, anzi una soffiata.

Una sorda scontentezza li tiene insieme, in deterministico minimalismo, tra l’aspirazione ad uscire da una condizione di marginalità geografica e sociale e la constatazione dell’inanità del progetto, condizionato da un Tempo e un Luogo che non garantiscono elementari diritti costituzionali.

C’è questo locale borderline, cercato e aperto con velleitaria speranza di emancipazione, intorno al quale ruota esterna malavita di piccolo cabotaggio e interne rancorose delazioni, tardivamente ritrattate.

Tutto avviene là, tra il detto e il non detto della protagonista e della voce narrante, che si alternano capitolo dopo capitolo, in univoca ma sfuggente narrazione dei fatti, che può confondere chi legge, ma che è una dichiarata sospensione di giudizio rispetto alla vicenda che determina la chiusura del locale, la fuga del socio, il carcere per il fidanzato, la liaison con il poliziotto; e investe anche i precedenti rapporti della protagonista col padre, la di lui detenzione, l’incidente all’anca, l’abbandono scolastico…

Lei, Caterina, è, tuttavia, flessuosa, calda, invincibile, o almeno così era e ancora si percepisce con candore narcisistico, nonostante le mani sciupate dai detergenti chimici, le tinte fatte in casa, l’anca fratturata, il sogno infranto della danza classica, la dislessia, le amicizie inconsistenti, il carattere schivo orgoglioso, insofferente degli slanci ecumenici degli operatori sociali.

Lei è piena di energia, incendierà appartamenti, farà uscire cavallette dai tombini, partorirà solo gemelli, come le predice la cartomante del circo, rigorosamente felliniano (più che una festa sembra un lutto).
Detiene la convinzione incrollabile che ogni donna ha diritto a 2 grandi amoricome conferma sua madre, instancabile consumatrice di telenovelas argentine.

Lei, senza parere, conduce i giochi, protagonista consapevole dei limiti di genere, lascia, divertita, ai maschi l’esercizio di mansplainingfossero compagni di vita o di lavoro. Volgare mai, prodiga di consigli estetici, declassata da stripter a truccatrice,
contingenza umiliante, fonte di attacchi di panico.
Ma la regola per lei è: tutto pur di sentirsi ancora utile umana.

Caterina è un personaggio straziante nella sua vulnerabilità, di cui è pienamente e orgogliosamente consapevole ( mi difendo da quando sono nata), sa di essere come i canarini mandati in avanscoperta nelle miniere di carbone per rilevare sacche di gas, non è detto che pur sapendone interpretare i segni saremmo in grado di scappare in tempo, ma non si lascia intimidire dagli eventi tutti rigorosamente avversi, consapevole dell’occasione perduta, della mancanza di talento e di chances.
Sa cogliere il valore della sconfitta e l’umanità che ne scaturisce nella bella pagina conclusiva,ove, come una creatura di Pessoa, intende fare “dell’interruzione, un nuovo cammino,della caduta, un passo di danza”.

Inedita la periferia romana, narrata dalla Durastanti, priva dell’allucinato spiritato glamour, che solitamente i romanzi e i film le attribuiscono, e proprio per questo colta in tutta la sedimentata faticosa quotidianità dei suoi abitanti, immersi nel degrado urbano, senza validi riferimenti culturali, assenti le istituzioni, in faticosa ricerca di identità, laddove c’è chi si fa male pur di passare la notte al caldo in caserma o all’ospedale.

Colpisce la pacatezza del racconto, l’approccio morbido alle esplosive tematiche sociali, che la dice lunga sul grado di rassegnata disperazione dei protagonisti, lontani dai clichè urlati, dall’abusato uso dialettale e gergale, anzi preferibilmente silenziosi, attenti a non ferirsi, consapevoli dei loro limiti, quasi obbligati a piegarsi ad una religione della rinuncia, che li rende sostanzialmente innocenti
( Uno dei nostri problemi è stato credere che i signori che ci chiedevano soldi non fossero delinquenti ma missionari)

Così l’autrice, in sobrietà di stile e linguaggio, zoomma sulla matassa ingarbugliata di tangenziali e raccordi, che è la Roma dei suoi personaggi, da Rebibbia a Pietralata, da Torpignattara a Casal Bertone, fino gli argini dell’Aniene ove vive una popolazione anfibia di cui pochi romani sospettano l’esistenza, e, occasionalmente, fino al lido di Ostia, pur senza pretese di intimità col mare.

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