“How many roads must a man walk down
Before you call him a man?”
Bob Dylan
“Maria era bellissima”.
Da qui parte l’immaginario narrativo di Angelo Camerini attorno alla sua stagione ar/dente.
Quaranta anni fa: liceo Mamiani, più manifestazioni che lezioni, spettacolari capelli lunghissimi che, alla maniera di Bob Dylan, “avrebbero potuto imprigionare i denti di un pettine“, Benelli 125 attorno a cui affaccendarsi ” come un cowboy attorno al cavallo”.
Tanto potrebbe bastare per sedurre il lettore.
Invece, disattendendo il celebre monito di Kafka ” Osservati , è la parola del serpente “, Camerini ci consegna il grappolo delle sue esperienze, tutte rigorosamente nel segno di tichè (l’incerto) e offre un dettagliato amarcord dei suoi ’70, segnati dal conflitto edipico, dalla ribellione alla famiglia, sempre “guscio di malcontento”, come osserva Lidia Ravera, fosse quella piccolo/borghese di Maria o quella intellettual/alternativa del protagonista, in contestazione della quale parte il percorso del nostro Angelo ribelle.
Per molti fu adesione entusiasta a Potere operaio, spesso declinato in Godere operaio, per il Nostro dedizione ragionata alla causa di Lotta Continua, al mito delle Comuni, con indirizzario recuperato da Angelo Quattrocchi superattivista controculturale, teorico di Ippismo, autore di Oltre la gelosia l’amore (molto letto nelle aule dei tribunali).
Accolto metabolizzato praticato,il monito imperioso di Fallo (accattivante traduzione dell’incolore Do It), si apre il capitolo Pizzichina, con esaltante seppur fatigante scoperta del mondo bucolico e qualche spontanea considerazione alla Orwell su evidenti contraddizioni del sistema vagheggiato (“in una comune un capo?” Andiamo! )
Troppo stridente il contrasto con l’immagine idealizzata della campagna, “come in un presepe, un affresco del ‘400, una foto della California o forse il quarto stato in marcia”, suggerita da cultura classica, amore per la Pittura e la Storia, assorbita, suo malgrado, in famiglia, e mettiamoci pure, per esaltazione psichedelica del mito del buon selvaggio, sprezzante di progresso e capitalismo.
Salvato dalle prigioni austriache e, peggio ancora, dalle ire dei consuoceri ignari e furibondi, da un provvidenziale zio Carmelo, illuminato deus ex machina, catapultato nell’altro emisfero da una vera task force di danarosi e generosi zii dislocati nei punti giusti, il Nostro non demorde dal mito di rifondare il mondo, disdegna lussi borghesi, e, vero apostolo del low budget, uscito dall’area protetta dell’hotel offerto dagli zii, non ha difficoltà a trovar più usuali rotte pauperiste.
Salgari, rivelatosi drammaticamente ininfluente, gli sovvengono Aiman (senza paura) e Yong (coraggioso), con i quali ci mette niente a stabilire relazioni freaks ed immergersi, su traballante tuc-tuc, nel colorato mondo di Singapore.
La lungimiranza familiare, più che la provvidenza manzoniana, sempre clamorosamente fuori tempo e luogo, interviene ancora una volta sulle iniziative indie di Eingiolino, protagonista di un quasi fumettone internazionale tra pene d’amore e certificata (distr)azione, coltivata nel tempo, che lo porta a mancare aerei e occasioni.
Perduto l’Amore per nota volubilità femminile e pesanti ingerenze familiari, ma non la fede nella semplicità dell’accadere, torna a Roma dove lo soccorre nell’ordine:
la frequentazione dei classici e il connecting friends, sempre evergreen.
Trova così occupazione a Paese Sera, ma il demone del viaggio (oh! viaggiareee) non lo abbandona.
Ed eccolo, emulo del Che e con mezzi sgangherati, al pari della mitica Poderosa, sostituita da una due cavalli azzurra, avventurosamente acquistata ad Amsterdam ed affettuosamente chiamata Celestina, aggirarsi per campagne e città, sempre più percorse dalla contestazione violenta.
Di qui la decisione di andare in Africa, allontanandosi da scelte politiche non condivise, rafforzando il desiderio di conoscere paesi nuovi, praticare l’amore per la Natura, l’interesse alla marginalità sociale, alla sapienza tecnica che ne farà un ottimo apicoltore.
L’anima del libro mi sembra sigillata nel titolo, tanto ingiustamente decapitato dall’Editore quanto amorevolmente ricordato in alcune delle pagine più suggestive del libro:
“Tamaka mancipua tsapi”
“Domani andremo a pesca di pesci”
Così dicono i piccoli amici stswana conosciuti in un eden in Botswana, tra ninfee e aironi, mentre pescano sul fiume dal loro makoro, con determinata semplicità, perizia e sorprendente fiducia nel domani.
Quasi un mantra in lingua khoisan, apprezzato e custodito dal futuro etnologo.
Fil rouge rintracciabile in tutto il testo di Angelo Camerini.