Chissà se a Johann Wolfgang von Goethe, beniamino degli dei e cultore di rovine, sarebbe piaciuto essere definito abbandonologo, secondo il neologismo certificato da TRECCANI e citato nel primo incontro di Conversazioni sulle Rovine al Teatro di Roma da Carmen Pellegrino autrice di Cade la terra e soprattutto, orgogliosamente definitasi, abbandonologa.
Niente baudelairiano spleen per la magnetica Napoletana che al contrario ha dichiarato di trarre vitalistico conforto ed energico metodo esistenziale dall’osservazione e la cura dei ruderi, resilienti antagonisti di una selvaggia età incurante di memorie e radici.
Lei, in controtendenza alla smania di nuovo, utilizza frequenze emozionali diverse per rapportarsi alle rovine, senza istituire graduatorie tra rovine nobili e comuni e sottolineando, con suggestivi reportages fotografici, la dignità insita nel più remoto borgo, abbandonato per frana naturale e/o sociale.
Correndo da Roscigno a Boodie, da Oradour-sur-Glane ad Ani, dai villaggi minerari sardi ai siti siriani, dal Cilento alla California, la Pellegrino si rapporta a ciò che è stato abbandonato e osserva come le opere abbandonate dell’uomo, una volta restituite al mondo vegetale ed animale paiono democraticamente azzerare le differenze sociali e disvelare la vacuità dei miti valoriali del nostro tempo.
Sentendola parlare, lei mattatrice di abbandonologia, vien da pensare a Calvino quando dice:
“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.”