Poetica e amaramente ironica la luce che Laferriére getta sulla sua metafisica Haiti in schizofrenico duplice parallelismo tra paese reale e ideale, all’ombra vitalistica e misteriosa dell’Olimpo Voodoo, grazie alla propiziatoria corale accoglienza della sua gente e all’efficienza della gloriosa inseparabile Remington.
Laferriére è scrittore da tempo cult in Quèbec, tradotto in 10 lingue, accademico di Francia dal 12 dicembre 2013, capace di trasformare l’esilio, cui lo costrinsero i Tontons Macoute, in occasione di (ri)creazione e (ri)conoscenza:
“l’esilio mi ha regalato il mondo intero” gli piace ribadire
Tessendo altresì l’elogio del viaggio, con cui più per propensione temperamentale che per imposizione dittatoriale, ha ntessuto la vita.
Potrebbe essere un’autofiction questo Paese senza cappello, se non fossero dolorosamente reali i dati dell’esilio imposto dalla dittatura dei Duvalier, prima a suo padre, sindaco di Port-au-Prince, poi a lui 23enne dopo l’assassinio del collega e amico Gasner Raymond ad opera dei Tontons Macute.
Senza contare i 32 colpi di stato, lo stravolgimento ambientale, lo sprawl scomposto della città, la presenza inquietante e consolatoria degli zombi e gli aspetti della religione su cui, precedendo Carrère Houellebecq Amos Oz, non cessa di interrogare parenti amici e conoscenti al suo rientro in patria da Montréal.
Con talento da equilibrista e lo stesso orgoglio culturale espresso da Aimé Césaire in Diario del ritorno al paese natale, vive il suo nostos, tra domestici riti officiati dalle amate donne della famiglia, cui deve la condizione di “principe” laddove per molti e per molto non fu che un “negro”, e le.spiazzanti incursioni nell’olimpo haitiano, segnato da spregiudicati incontri con Erzulie Freda Dahomey, Baron Samedi, Ogou Ferraille.
La forza della sua narrazione materica ci fa accomodare all’ombra del’albero di mango con i frutti che cadono intorno, tra profumo di caffè delle Palme e cacofonico brusio creolo, senza distogliere lo sguardo da bruttezze e bellezze di quel “sasso al sole” che è Haiti immobile tra il mar dei Caraibi e la repubblica Domenicana.
Nel caos prospettico cromatico sentimentale si rendono protagonisti delle sue riflessioni toccanti e graffianti il nugolo di donne mamme zie nonne vicine di casa che, come la mitica scimmia del detto popolare, rischiano di uccidere i figli a suon di carezze.
Con crescente passione Vecchio Osso non cessa di interrogarsi/re per cercare di capire cosa diavolo passi per la testa ai 7 milioni di haitiani stregati dal voodoo, in un affresco che non manca di destabilizzare anche il lettore, preso tra pragmatica verghiana saggezza popolare dei modi di dire locali, in esergo ad ogni capitolo, e sfrenate ascensioni/accensioni, tra sonno e veglia, in paradisi fuori controllo.
“Parlare di Haiti a Haiti”, si rivelerà più difficile di quanto immaginato, davanti alle più radicate convinzioni su mondi paralleli, ove persino lo sbarco sulla luna è da sottoporre a revisione, poichè
“c’è chi non ha bisogno di missili per sbarcare sulla luna”
a prescindere dai nugoli di mosche simbolo di contraddizioni e bassezze che faranno concludere con sorniona leggerezza a Vecchio Osso:
“dopo aver trascorso quasi vent’anni lontano dal proprio paese, non capisci nemmeno le cose più elementari”.
Si deve a Ginevra Bompiani per Nottetempo l’edizione italiana di Paese senza cappello già pubblicato nel 1996.