Vuoi per capacità autodistruttiva degli uni, vuoi per cronico indecionismo degli altri, vuoi per personale piglio di inedito pragmatismo e felicità espressiva, nell’agone politico sardo (e non solo), cresce il credito di Michela Murgia e del suo progetto.
Con fascino da indiscutibile storyteller, senza perdere di vista il punto di fuoco della dinamica pre-elettorale, in quotidiano #Selfy, ieri notava:
,”Nessuno è mai pronto fino in fondo a compiere la sua impresa più grande. Per questo le mete appartengono ai naufraghi, ai sopravvissuti, a quelli caduti in mare per sbaglio mentre i forti e resoluti restavano a riva, col dito alzato ad aspettare un vento giusto mai soffiato”.
Bellissimo.
Con ordine consolante e precisione euclidea, interviene oggi sulla Sanità:
“…Pensiamo che con questo processo di azione sociale le persone, le organizzazioni e le comunità dei sardi possano acquisire competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di vita. Questa acquisizione di competenza su stessi è particolarmente urgente nell’ambito delle patologie che in Sardegna risultano statisticamente più incidenti, come la talassemia, la sclerosi multipla e il diabete.
Pensiamo anche che le strutture organizzative e i servizi sociali e sanitari debbano aumentare la partecipazione di chi ci lavora dentro, per migliorare l’efficacia dell’organizzazione e l’efficienza negli scopi. Vogliamo valorizzare la risorsa umana e professionale degli operatori della salute, stabilizzandola e mantenendola in terra sarda.
Pensiamo che sia utile migliorare le connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nella comunità, per sviluppare una “comunità di competenze” nei territori della Sardegna. Questo risultato è una delle strade per ridurre l’ospedalizzazione e l’istituzionalizzazione delle patologie, mantenendo – per quanto è possibile – le persone nel proprio nucleo familiare, nel proprio territorio e vicino ai propri affetti.
Pensiamo che la promozione della salute debba essere intesa come specifica “tecnologia organizzativa sanitaria e di pensiero socio-sanitario” che può e deve essere usata nel lavoro quotidiano delle strutture sanitarie e sociali: tutti possono infatti sviluppare comportamenti professionali, organizzativi e relazionali che mettano in grado le persone/pazienti, le loro associazioni di rappresentanza, i loro familiari, i dipendenti e la comunità di aumentare il controllo sui fattori che influenzano la salute e di acquisire il maggior grado possibile di autonomia. Anche per questo promuoviamo la territorializzazione dei servizi, evitando la loro duplicazione e incentivando la messa in rete di quelli già esistenti e capillarizzati (medici di famiglia, farmacie, volontariato, associazioni, terzo settore, servizi sociali comunali).
Pensiamo che l’essere occupati e sentirsi utili e valorizzati siano risposte molto valide all’insorgere e al radicarsi del disagio sociale e quindi del malessere. Per gli adulti questo significa avere lavoro e opportunità culturali e di relazione e per i bambini significa avere spazi di gioco, di sport e di libertà naturale dove maturare alternative di vita e speranza per il futuro. Dove mancano queste opportunità, nessun ospedale, nessun ambulatorio e nessun servizio sociale può garantire la salute”.