C’è tanto Orson Welles ne “La verità sul caso Harry Quebert”, quello di F come falso de La Signora di Shanghai, un pò di Psycho, legioni di b-movies e tanto altro….
Giancarlo De Cataldo
da la Repubblica 27 maggio 2013
.«Un’ora fa vi avevo fatto una promessa, cari amici: avevo promesso che vi avrei raccontato una storia vera».
Avvolto dal mantello a ruota dell’illusionista, nel finale di F come falso, il suo controverso film cult sui grandi falsari d’arte, Orson Welles guarda nella camera, si accende il sigaro e aggiunge: «L’ora è passata, e io vi posso giurare che negli ultimi diciassette minuti non avete sentito altro che un cumulo di menzogne».
Se ha un maestro, il giovane scrittore ginevrino Joel Dicker, che con questo suo La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani, pagg. 784, 19,50 euro) ha fatto gridare al miracolo la critica francese e ha già venduto centinaia di migliaia di copie in Francia, Svizzera e Belgio, è proprio il Welles che esplora il regno del Falso, investigando il confine spesso impalpabile che lo separa dal Vero. La verità sul caso Harry Quebert ha tutta l’apparenza di un odierno F come falso letterario. Se Welles parlava di quadri e bugie, Dicker scrive di libri e bugie. Tutti mentono, in questa storia. Mentono alla comunità e mentono a se stessi. Tutti. A partire dall’autore. E solo nella menzogna, par di capire, stanno le verità più profonde.
Tutto comincia quando il giovane romanziere Marcus P. Goldman, preda della sindrome da foglio bianco che immancabilmente assale lo scrittore travolto da improvviso successo, abbandona la scintillante scena letteraria di New York e si rifugia nel ridente villaggio di Aurora, nel cuore del quieto, elegante, solido e accogliente New Hampshire. Inseguito dal ringhiante editore Roy Barnaski che strepita e minaccia perché il secondo, atteso capolavoro del giovane autore veda finalmente la luce, Marcus va a cercare ispirazione dal suo antico mentore, Harry L.Quebert.
Colui che trent’anni prima aveva commosso l’America con “Le origini del male“, straziante storia dell’amore impossibile fra un uomo e una donna divisi da ragioni di classe. Harry ha insegnato tutto a Marcus: a scrivere, a tirare di boxe, e, soprattutto, a vivere. Trasformando un ambizioso adolescente furbetto in un Vero Essere Umano. Il suo debito di riconoscenza è così grande che Marcus non si scompone più di tanto quando, frugando nelle carte dell’amico, scopre che, trent’anni prima, Harry era stato perdutamente innamorato della quindicenne Nora Kellergan, poi scomparsa in misteriose e drammatiche circostanze, forse vittima di un maniaco. Se la love-story di Harry con la piccola Nora venisse alla luce, l’America puritana reagirebbe con sdegno. Marcus, però, non giudica, e dopo aver giurato di mantenere il segreto, se ne torna a New York, sempre più sprofondato in una crisi creativa senza rimedio.
Ma il destino è in agguato, pronto a colpire. Harry ordina lavori nel giardino della sua villa che sembra uscita da un dipinto di Hopper. I giardinieri scavano e portano alla luce ciò che resta di Nora Kellergan. Accanto alle povere ossa, il manoscritto del romanzo di Harry con una dedica d’amore. Esplode lo scandalo. Harry Quebert, esposto all’odio come pedofilo e assassino, finisce in galera.
Marcus pianta New York e torna ad Aurora per salvarlo. Indagando su quella tenebrosa vicenda di tanti anni prima, riuscirà a sciogliere l’enigma della morte di Nora e, by the way, a produrre, finalmente, l’attesa “opera seconda”: La verità sul caso Harry Quebert, appunto. Da questo spunto iniziale, si dipartono, come in un gioco di specchi (come non pensare ancora al Welles della Signora di Shanghai ?), vari filoni narrativi, tutti di rigorosa ascendenza letteraria. L’investigazione di Marcus sta fra il noir classico e il true crime, compresa una descrizione della cittadina di Aurora che rimanda al memorabile incipit di A sangue freddo di Truman Capote.
La storia d’amore fra Harry e Nola è puro Lolita. I segreti di Aurora ricordano I peccati di Peyton Place, la famiglia fondamentalista di Nora echeggia venature di un perbenismo assassino che dalla Casa Usher di Poe approderà a Stephen King, passando per legioni di b-movies. Nei fantasmi di Nora e nel suo rapporto con la madre si rinvengono tracce del Norman Bates di Psycho, e via dicendo.
Il gioco coinvolge, con diabolica simmetria, anche i personaggi minori, maschere di una sapiente commedia dell’arte letteraria: dal sergente in apparenza burbero e in realtà duttile e intelligente, alla “jewish mama” di Marcus, che spara battute a raffica come in un Woody Allen d’annata. Trainate dal trionfo degli archetipi, le pagine scorrono inquiete e veloci. Tanto febbrili che, se non sapessimo che Dicker esiste veramente, penseremmo alla beffa di una sofisticata intelligenza meccanica, un raffinato “software” di ultimissima generazione che si diverte a edificare una monumentale avulsa da qualsivoglia seduzione del realismo.
Ma Dicker c’è, e del senso dell’opera è lucidamente e onestamente consapevole: voleva scrivere proprio questo, un romanzo “voltapagina”, sedotto dalla meticolosità narrativa di serie televisive come Homeland. Sulla costa orientale degli Stati Uniti ci ha davvero vissuto. Anche se resta pur sempre l’europeo alla corte dell’impero a stelle&strisce, il suo sguardo sull’America profonda è meno sbigottito e più incisivo di quello di tanti visitors che l’hanno preceduto. Una certa esperienza del reale gli consente inoltre di introdurre nel prisma compositivo alcune intelligenti distorsioni nelle quali si cela la zampata d’autore. Ci sono, ad esempio, domande che Marcus non fa al momento opportuno e atti concreti d’indagine che i poliziotti incomprensibilmente ignorano. E non si tratta solo di espedienti per mandare avanti la macchina narrativa
. È un’orgogliosa professione di indifferenza nei confronti delle regole, il tradimento manifesto di quel manuale di “consigli a un giovane scrittore” che il maturo Harry elargisce all’apprendista Marcus. L’ennesima sottolineatura del Segno del Falso che è l’unica vera strada per il Vero. D’altronde, la verità svelata nel finale è decisamente meno seducente delle parziali e frammentarie verità – tutte false – che si erano affacciate strada facendo: print the legend, che è meglio.
I fatti, quasi sempre, ci deludono. Da anni si dice che scrivere noir è un modo intelligente per aggredire il contemporaneo, raccontandone il lato oscuro. Dicker usa il noir – e non solo quello – per ristabilire la centralità del letterario. È presto per affermare che siamo di fronte a un’inversione di tendenza, ma comunque chapeau: con questo giovane svizzero dovremo tutti fare i conti, prima o poi.
.Post scriptum. In quanto “caso letterario”, Dicker è stato paragonato a Stieg Larsson. Niente di più sbagliato. Larsson era un comunista combattente che denunciava le ingiustizie di una società corrotta e, neanche troppo occultamente, si proponeva di cambiarla. Dicker è, per dirla ancora con Welles, «l’arte come menzogna che ci fa capire la verità».
E bisogna dire che ci riesce maledettamente bene.”
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