Il Foglio 11 giugno 2013
. La verità sul caso Joël Dicker.
Come scrivere il Grande Romanzo Americano, far morire d’invidia scrittorini e criticoni e renderci felici per tutta l’estate. Da svizzero, a 28 anni, in 770 pagine
.“La verità sul caso Harry Quebert” come “una simpatica fregatura”
.La provincia americana, una quindicenne, un professore universitario, un delitto. Uno scrittore che non è nato negli Stati Uniti, eppur senza timore si misura con il Grande Romanzo Americano, sogno di ogni matricola al corso di scrittura (gli scrittori affermati non lo ammettono, ma lo sognano anche loro). Vi viene in mente Vladimir Nabokov, con “Lolita”? Sbagliato: parlavamo di Joël Dicker, nato a Ginevra, 28 anni quasi compiuti, da qualche giorno anche nelle librerie italiane con “La verità sul caso Harry Quebert”. Bompiani se lo è aggiudicato alla Fiera del Libro di Francoforte, in Francia ha venduto quasi un milione di copie.
Il fan club vanta Marc Fumaroli, Bernard Pivot e Jean d’Ormesson: due su tre li immaginavamo chini su classici rilegati in pelle, non innamorati di un romanzo che una volta iniziato non si riesce a mettere giù. Smaniamo per sapere come va a finire, e ogni volta che crediamo di aver capito arriva un altro colpo di scena. Se riusciamo a non renderlo troppo antipatico – c’è gente che non legge i libri in classifica, e ci sono recensori che funzionano al contrario, facendoci diffidare dei libri che raccomandano – “La verità sul caso Harry Quebert” potrebbe diventare il libro dell’estate.
770 pagine sono il peso giusto per tener fermo l’asciugamano in una giornata di vento (tale deve essere, secondo gli editori americani, la dimensione del bestseller da portare in vacanza). Possono spaventare, nell’era della distrazione. Ma acchiappano più dei botta e risposta su Twitter. Raccontano di scrittori, almeno all’inizio: il giovane Marcus Goldman, che ha alle spalle un romanzo di gran successo e non riesce a scrivere il secondo, pur avendo già ricevuto l’anticipo; il suo maestro Harry Quebert, che vive in una casa sulla spiaggia vicino ad Aurora, New Hampshire, ed è famoso per un libro scritto nel 1975, “Le origini del male”. Giusto l’estate in cui dalla cittadina sparì la quindicenne Nola Kellergan.
“Chi ha ucciso Nola Kellergan? Non lo so e non mi interessa” borbotta uno dei rari stroncatori. L’offesa somma sta naturalmente nella domanda, che evoca “Chi ha ucciso Laura Palmer?” in “Twin Peaks” di David Lynch. Un romanzo che risucchia come una serie tv? Orrore, dicono le vestali della letteratura. Joël Dicker conferma: “Volevo scrivere qualcosa che procurasse al lettore il piacere da me provato guardando ‘Homeland’. Prima vedi una puntata, poi ne vedi quattro di seguito stando sveglio la notte, il giorno dopo non riesci a lavorare”. Missione compiuta, a partire dal capitolo 31, che come gli altri inizia con un consiglio di scrittura: “Il primo capitolo è fondamentale, Marcus. Se ai lettori non piace non leggono il resto del libro”. Lettori più pronti e veloci di noi hanno bollato “La verità sul caso Harry Quebert” come “una simpatica fregatura”. Noi siamo arrivati in fondo felici, pensando a ogni voltar di pagina: “Ne avessimo noi di romanzieri bravi come Dicker”.
La numerazione dei capitoli va a scendere, in un conto alla rovescia. Il 23 affronta l’annoso problema “a chi ti ispiri per i personaggi?”. Risposta: “A tutti, però è meglio non dirlo, così ti risparmi un sacco di grane. Il privilegio di uno scrittore è poter regolare i conti con i suoi simili tramite il suo lavoro”. Non solo dello scrittore, per la verità. Di chiunque si metta a raccontare storie, sulla propria vita e sulle vite altrui. “La verità sul caso Harry Quebert” ha una serie di narratori che conoscono solo una parte della storia, come accadeva in “La pietra di luna” di Wilkie Collins: è l’unico modo per tacere informazioni senza ingannare il lettore. Le situazioni si ribaltano, le verità acquisite a pagina cento vengono smascherate a pagina centodieci. La costruzione è raffinatissima. I personaggi sono personaggi. Dopo poche pagine sembrano vecchie conoscenze, e moriamo di curiosità per il tragico destino di Nola – ritrovata dopo trent’anni sepolta nel giardino di Harry Quebert, con accanto il manoscritto di “Le origini del male”. Vale anche per la mamma del romanziere Goldman, che come tutte le mamme ebraiche vorrebbe vedere il figlio sistemato con una brava ragazza: “Sei omosessuale? Hai detto di no quindi significa sì. Ti piacciono le donne? Le donne? Fattene piacere una sola e sposala”.
Nella sua recensione sul Figaro, Marc Fumaroli parla di adrenalina letteraria (ne avessimo noi di recensori così, che a 90 anni leggono il romanzo di uno sconosciuto e si entusiasmano come adolescenti al loro primo Salinger). Di nuovo siamo a Vladimir Nabokov, convinto che il segno sicuro della grande letteratura fosse il “brivido tra le scapole”. Al russo che volle farsi americano dobbiamo anche l’idea che la letteratura sia nata quando “un ragazzo di Neanderthal corse verso il villaggio gridando ‘al lupo al lupo’, e non c’era nessun lupo dietro di lui” (quando il lupo c’era, nel migliore dei casi poteva considerarsi giornalismo o social network #lupocattivo). Joël Dicker potrebbe essere davvero il nipotino di Nabokov: suo nonno era un aristocratico russo fuggito a Ginevra prima della Rivoluzione. Altri parenti emigrarono negli Stati Uniti. Attualmente vivono a Washington e hanno una casa di vacanza nel Maine, dove lo scrittore da ragazzino trascorreva le vacanze. Questo per rispondere all’obiezione: cosa ne sa degli Stati Uniti un giovanotto svizzero di madrelingua francese? Ne sa abbastanza da meritarsi – sull’edizione originale del romanzo, coprodotta da Editions de Fallois (per la Francia) e L’Age d’Homme (per la Svizzera) – un quadro di Edward Hopper.
Stati Uniti e serie televisive come modello: per certi lettori sono difetti imperdonabili, per altri lettori sono pregi che possiamo solo invidiare. Qual è l’ultimo romanzo italiano che avete letto rinunciando anche solo a un paio d’ore di sonno? Neanche i migliori fanno questo effetto: “El especialista de Barcelona” di Aldo Busi è un libro scritto magnificamente, come nessun altro in Italia riesce a fare. Non ha un inciampo, né una frase già sentita, né una parola di troppo. Eppure lo possiamo mettere giù quando la palpebra cade e riprendere il giorno dopo. Lo possiamo sorseggiare come un vino da meditazione, mentre “La verità sul caso Harry Quebert” va mandato giù come uno shottino di vodka (e poi un altro, e poi un altro).
Altri difetti imperdonabili – ma i nemici non lo ammetterebbero mai – sono la giovane età, il successo raggiunto al secondo tentativo, l’idillio con l’editore Bernard de Fallois (86 anni, fu grande amico di Georges Simenon). Il primo libro di Joël Dicker, uscito un paio d’anni fa con il titolo “Les derniers jours de nos pères”, raccontava le squadre di sabotatori organizzate da Churchill durante la Seconda guerra mondiale. 3.500 copie vendute, non proprio da andarne fieri. Quando gliene chiesero un altro, tirò fuori dal cassetto un romanzo quasi finito: “La verità sul caso Harry Quebert”. Gli sembrava troppo lungo, voleva togliere un po’ di pagine. Glielo strapparono di mano e lo pubblicarono correggendo solo l’ortografia. Sappiano gli aspiranti bestselleristi che l’editing si fa solo se ce n’è bisogno.
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vedi anche:
Giancarlo De Cataldo L’arte della menzogna
la Repubblica 27 maggio 2013
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