Imperdibile analisi su Jep Gambardella con corollario sul giornalismo mondano
Trevi traccia l’identikit del prototipo e isola l’archetipo nel “nipote di Rameau” di Diderot e Balzac.
Corriere della Sera – la Lettura 16 giugno 2013
.Le Illusioni perdute e La grande bellezza. Sorrentino al cinema celebra vizi e virtù del giornalista mondano. L’autore di «Qualcosa di scritto» mette a nudo e esalta l’archetipo letterario
.Jep Gambardella è figlio di Ermes e delle invenzioni di Diderot e Balzac
.”Come i fantasmi dei vecchi castelli, che scompaiono e riappaiono a intervalli di tempo imprevedibili, così i personaggi davvero insostituibili dell’immaginario, meno numerosi di quello che potrebbe sembrare a prima vista, amano ritornare alla ribalta, ben riconoscibili sotto i nuovi costumi indossati per l’occasione. Si verifica una specie di cortocircuito. La nuova incarnazione non ci inganna del tutto, e con piacere, fin dalle prime pagine di un libro o dai primi minuti di un film, riconosciamo il vecchio archetipo, che sembra strizzarci l’occhio. È come se ci dicesse: che volete, lo so che sono sempre io, ma ancora non è stato inventato nulla di meglio per rendere credibile questa storia, e il mondo che questa storia intende rappresentare.
Nessuna storia, del resto, per quanto pretenda di essere originale e addirittura inaudita, potrebbe essere comprensibile senza la presenza di un archetipo. Perché qualcosa ci interessi davvero, deve stimolare allo stesso tempo il nostro desiderio di novità e il suo contrario, vale a dire la nostra memoria. Esattamente come fa Jep Gambardella, il fatuo e impeccabile protagonista della Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Toni Servillo ne ha cavato fuori una delle sue interpretazioni più memorabili. Ma quella vecchia canaglia noi la conosciamo bene. E anche se ci secca ammetterlo, la sua versione della realtà rappresenta un punto di vista unico, e ancora illuminante. Proprio perché Jep è un parassita, un uomo inutile. Se si trova in cima alla piramide sociale, è alla maniera di un turacciolo che galleggia sulla superficie del mare.
Jep è un mondano, il re dei mondani. È un infallibile esperto di una delle scienze più complesse e raffinate che esistano, la scienza della frivolezza. Non la frivolezza individuale che ognuno coltiva all’interno di sé, come ingrediente del carattere e parte necessaria, anche se inconfessabile, del destino. No, la frivolezza di cui Jep è insieme l’anatomista e il sacerdote è un legame collettivo, una malattia epidemica, un linguaggio capace di cementare le relazioni fra i singoli. Non è senza importanza che Jep sia quella che una volta si sarebbe definita una «grande firma» di un importante quotidiano. La lieve coloritura professionale gli si addice come l’eleganza dei suoi completi di lino. Quella del giornalista mondano è la perfetta incarnazione moderna del custode della frivolezza. In lui trovano una sintesi suprema vecchie e onoratissime professioni, figlie o serve del privilegio e della ricchezza: la spia, il cortigiano, il poeta di epigrammi, il nottambulo. Tra tutti gli dei antichi, è Ermes il protettore ideale di questo tipo d’uomo, di quest’ombra sociale.
Si può affermare che il personaggio di Sorrentino è un epigono; ma in tutti gli epigoni, a ben vedere, scorre qualcosa dell’energia, della forza di persuasione degli originali. Risalire verso i prototipi dell’amabile Jep è un’avventura molto interessante. E non è un caso se si tratta di una vicenda che ha coinvolto degli autentici geni. La posta in gioco della frivolezza, in termini filosofici e addirittura politici, è molto più alta di quello che si potrebbe pensare. Ma il difficile, perché la storia di questo archetipo potesse avere inizio, fu individuare con esattezza il tipo d’uomo, talmente onnipresente in una società corrotta da rischiare, paradossalmente, di diventare invisibile.
Fu lo sguardo d’aquila di Diderot a isolare il virus, per così dire. Nessuno, dopo di lui, ha fatto di meglio. La scena, cioè la Parigi degli anni Sessanta del Settecento, era putrida e squisita al punto giusto. Diderot inventò molte cose, ma prese a modello una persona reale, che incontrava spesso passeggiando sotto i portici del Palais Royal. Era un uomo conosciuto in tutta la città come il «nipote di Rameau». Jean-Frangois Rameau, in effetti, era nipote di Jean-Philippe, il più celebre musicista dei suoi tempi. Di sicuro, era un uomo di talento, e dallo zio aveva ereditato un acutissimo sentimento musicale. Ma la sua vita scorreva su binari del tutto diversi da quelli del grande parente. L’unica preoccupazione del nipote di Rameau è guadagnarsi il pranzo e la cena invitato alla mensa di qualche potente. Le sue abilissime doti di conversatore e di pettegolo sono il suo strumento di sopravvivenza. E non mancano, a questo incredibile mostro sociale, la sensibilità e l’intelligenza necessarie al disprezzo di sé e degli altri. Gli effetti della sua esistenza di scroccone e parassita sono tali che, come per magia, la sua stessa fisionomia si è fatta evanescente. Qualche giorno ha l’aspetto di un barbone che ha dormito in un fienile; quando la ruota della fortuna invece gira verso l’alto, sembra un vero damerino, lustro e infiocchettato. Il genio di Diderot escogita una formula memorabile per questa evanescenza: «Nessuno gli assomiglia meno che lui stesso».
Nell’opera di Diderot, faceva la sua comparsa un rappresentante del tutto nuovo del mosaico sociale. Un individuo capace del giudizio estetico più fine e della più sordida e cinica esistenza morale. Qualcuno che non sa più distinguere il sublime e l’abietto perché ha trasformato il mondo in un pettegolezzo. Così feroce che Diderot, pur avendo lavorato per lunghi anni al suo testo (che è una specie di modernissima intervista), si guardò bene dal pubblicarlo: troppe persone si sarebbero sentite oltraggiate dalla lingua tagliente del nipote di Rameau.
Ma per uno di quei casi che ci fanno sospettare che le grandi scoperte trovino sempre la loro strada verso la luce, il manoscritto di Diderot capitò nientemeno che nelle mani di Goethe, che non poteva lasciarsi sfuggire una scoperta umana così interessante. Tanto che si sobbarcò la fatica di una traduzione tedesca e fece stampare il libro nel 1805. Fu lo stesso Goethe a decidere il titolo, che da allora rimase Il nipote di Rameau. Ma serviva almeno una mente altrettanto brillante e osservatrice per plasmare il mito in maniera definitiva. Da una parte, infatti, il personaggio di Rameau, con la sua dimostrazione che può esistere una realtà composta solo di effimere chiacchiere, è modernissimo e addirittura profetico. Dall’altro, la sua natura di parassita è inadatta ai tempi moderni, sembra un residuo del tempo dei giullari medievali. Per adattarlo alla vita moderna, bisognerà garantire all’archetipo una professione, e una dignitosa esistenza economica. Ed eccolo giornalista.
Come si sa, le mani poderose che si incaricarono di questa fondamentale modifica del modello originario furono quelle di Honoré de Balzac. Nelle Illusioni perdute, che forse è il più bello dei suoi innumerevoli romanzi, pubblicato nel 1837, le maldicenze del Nipote di Rameau si sono ormai trasformate in una prodigiosa industria, e il destino eccentrico di un bizzarro e geniale parassita è diventato una vera e propria professione. Ma sarebbe inesatto e fuorviante affermare che Balzac ha celebrato la nascita del giornalismo moderno e del suo potere. Sarebbe stato un argomento troppo astratto per il suo infallibile senso della realtà. Balzac fotografa un’attività apparentemente minore, fatta essenzialmente di recensioni a spettacoli teatrali, cronache di pranzi e corse di cavalli, feroci dileggi capaci di demolire le più solide reputazioni. E fa sì che il suo eroe, Lucien de Rubempré, arrivato a Parigi con tutt’altri propositi, finisca invischiato in questa rete come nel giardino incantato di un demonio tentatore. E la tentazione è irresistibile. Nel giro di poche ore, chi si dimostra in grado di governare i delicati fili dell’opinione e della chiacchiera può mutare il suo destino. Basta un articolo azzeccato e Lucien accede a un mondo di sesso e denaro che non aveva mai nemmeno osato immaginare. Questa improvvisa e radicale metamorfosi ha un prezzo: l’abbandono delle aspirazioni più alte.
Non diversamente da come farà il Jep Gambardella di Sorrentino, Lucien si lascia alle spalle le sue ambizioni letterarie. Il percorso dalla letteratura al giornalismo mondano si configura come una caduta biblica, un peccato originale. Come ogni fede, anche quella del futile esige dai suoi sacerdoti e custodi una devozione integrale. È un gioco idiota, d’accordo; ma ciò non gli ha mai impedito di essere anche una cosa seria, un potere. Non sono forse il pettegolezzo e la maldicenza il «piedistallo della celebrità», come spiega a Lucien uno dei suoi maestri? E soprattutto, non è forse vero che all’ombra di poteri ben più ufficiali, come quello politico, economico, religioso prospera sempre un mondo equivoco, parassitario, che sembra lì solo per fare contorno e invece custodisce, sapientemente mischiati a infinite menzogne, i segreti più importanti?
Una mente molto più filosofica della mia, e incline al pessimismo, potrebbe addirittura ricavarne un atroce sospetto: che non sia proprio l’effimera, inutile, incauta chiacchiera il più potente e indistruttibile legame tra gli uomini, il vero cemento della convivenza? Conviene cacciare dalla testa pensieri così tetri. Sarebbe come dire che al posto dell’immaginazione, al potere è andato il pettegolezzo”.
One thought on “Emanuele Trevi – Il potere della frivolezza”
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