Un itinerario di inaspettata musicalità, quasi una ballata immensamente coinvolgente ed avvolgente, attende chi si accinge a salire sulla nave di Julie Otsuka, in perigliosa navigazione tra gli orrori della prevaricazione esercitata con masochistico impegno, in ogni tempo e in qualsiasi latitudine.
Si sottrae felicemente a qualsiasi classificazione di genere Venivamo tutte per mare e l’andamento corale rende il libro delizioso nella sua ipnotica infernalità, per citare, volendo, Breton, ma anche andando, più immediatamente, al titolo originale del libro The Buddha in the Attic, evocante il sorriso imperturbabile e lieve del Buddha, davanti allo scorrere delle più disparate situazioni.
Il libro polverizza e scavalca a piè pari il solco tra piccole storie e grande Storia, avendo tutti i requisiti della grande scrittura corale, nella felice suggestiva scelta di quel “noi narrante”, che si esercita nella difficile arte dell’elencare senza annoiare.
Tutto gira intorno ad un gruppo di ragazze giapponesi, che in fuga da un destino di miseria, nel secolo scorso lasciarono il loro Paese, per unirsi ad un connazionale emigrato sulla costa occidentale degli Stati Uniti, conosciuto solo in fotografia e tramite sgrammaticati brandelli di informazioni per lo più millantate.
Otsuka con arte partecipativa, sfuggendo al sensazionalismo della documentazione raccolta, racconta di speranze delusioni nostalgie aspettative e sì persino frivolezze, che quell’equipaggio femminile, in gara di indistruttibile eterno femminino, anche col mal di mare, anche tra lezzo di vomito e piscio, esercita davanti a specchietti d’argento, dono delle madri, prodighe di massime passe-par-tout, tipo ” una donna è debole, ma una madre è forte” su cui costruire, a prescindere, la propria forza futura.
Julie Otsuka sfugge alla tematica identitaria femminile, cui il titolo italiano sembra consegnare il libro e integra nel quadro degli ininterrotti flussi migratori, segnati dall’insofferenza e dallo sfruttamento da parte dei paesi ospitanti, tutte le persone protagoniste, senza distinzione di genere.
Il noi narrante del libro rafforza e moltiplica prodigiosamente i fatti narrati, li amplifica rendendoli universali, strappando le vicende al cono d’ombra sotto cui inevitabilmente sarebbero cadute.
Non a caso il libro si apre con l’epigrafe tratta da Siracide 44,8-9
“….Di altri non sussiste memoria; svanirono come non fossero mai esistiti;
furono come non fossero mai stati, loro e i loro figli dopo di essi”
Debitrice al meglio della prosa elegante, musicale, con continui ritorni alla Henry James, ( Quasi tutte…, Alcune di noi…) la Otsuka impiega la forza del NOI e la declina nelle infinite sfumature dei destini individuali.
Il set della vicenda è una nave maleodorante alla volta di S. Francisco o del sogno americano tout-court, con inevitabile corollario di umiliazioni, ostacoli linguistici, culturali, ambientali da superare con tenacia e afferrar per le corna con inaudita determinazione.
Soprattutto nel momento cruciale in cui, nel 1942, dopo Pearl Harbour, Franklin D. Roosevelt dichiarò pericolosi nemici gli inermi giardinieri, bottegai, artigiani, contadini giapponesi, costretti ad abbandonare precipitosamente con le loro famiglie, quanto faticosamente costruito.
Da quella nave, tra rumor di zoccoli, cibo rancido, chiacchere interminabili, kimoni gelosamente custoditi al pari di sontuosi sogni di vita migliore, non si scende più: chiunque trova un sè stesso alle prese col futuro, o con la memoria di un passato individuale e/o collettivo.