Primo premio alla Festa del Cinema di Roma lo scorso ottobre, opera prima di Nicolo Donato – trentaseienne regista danese dallo stile vagamente amletico – che ribaltando un passato patinato da fotografo di moda, sceglie la camera a mano ondeggiante alla Lars Von Trier – cui dedica il nome del protagonista – per raccontare una storia dove a vincere è l’umanità, fra l’essere e il non essere.
Colpisce la recitazione rigorosa, resa soprattutto da sguardi, volti, corpi e mani tormentate come fossero umani di Egon Schiele; e le luci caravaggesche scelte per incidere, più dei coltelli naziskin: come gli occhi liquidi e il profilo inquieto del fratello eroinomane di uno dei due protagonisti, incorniciato dal cappuccio nero – un pò Scream e un pò Giuda – che scioglierà, con il tradimento, il nodo della storia. Un inconsapevole “urlo di Munch” – più stolido che inorridito – metaforicamente deputato ad ammonire in prima persona la follia collettiva del gruppo.
E la scenografia arida e fredda del cottage sul mare, comunque più accogliente della famiglia dura o assente da cui Lars fugge, per cercare “calore” – e poi un amore nascosto – in una comunità di fanatici neonazisti di cui non condivide gli intenti, ma dai quali troverà apprezzamento proprio per il coraggio di averli definiti repressi e sfigati.
Amore e tanathos, delicato e violento insieme: scioccante ma convincente.
One thought on “Brotherhood”
Ok !
Però rilevo
1) un pessimo doppiaggio,
2) una certa defaillance nella scrittura, che a volte trasforma gli orridi naziskin in una banda di giullari inconsapevoli, cosa che distoglie dal filo drammaturgico,
3) una discontinuità fastidiosa nell’immagini che passano dallo straordinariamente sciatto allo straordinariamente elegante, anche con citazioni di grande effetto.